L’abbondanza di risorse minerarie a Grotta della Monaca ha condizionato fortemente, sin da epoca molto antica, il rapporto tra l’uomo e la cavità, sicché quest’ultima è stata a più riprese frequentata per l’acquisizione sia dei suoi minerali ferrosi che cupriferi.
Lo sfruttamento degli idrossidi di ferro
La goethite è stata la prima mineralizzazione ad essere coltivata: lo sfruttamento di questo idrossido ferroso inizia episodicamente, nei pressi dell’imbocco della cavità, già durante il Paleolitico superiore. Recenti scavi archeologici, infatti, hanno portato alla scoperta di diversi strumenti in selce di forma atipica, dispersi soprattutto all’interno di profonde fratture nella roccia ricolme di goethite. Dagli stessi livelli di questa industria deriva un’ulna umana sistemata intenzionalmente, in posizione isolata, sotto un macigno calcareo. L’ulna è stata deposta all’interno di una fossetta scavata nell’idrossido, quindi ricoperta dal macigno. Tale reperto osseo, datato col radiocarbonio, ha restituito una data calibrata che lo colloca attorno a 20.000 anni da oggi.
Chiare attestazioni di una successiva estrazione dei minerali ferrosi sono note nella Sala dei pipistrelli e nei Cunicoli terminali. Una serie di datazioni radiocarboniche inquadra questa nuova fase di approvvigionamento tra la fine del V e gli inizi del IV millennio a.C. Gli strumenti impiegati per la coltivazione degli idrossidi di ferro hanno lasciato numerose impronte di scavo, a volte eccellentemente conservate, sulle superfici dei filoni mineralizzati. Si riconoscono colpi di piccone in palco di cervo e in corno di capra, ma anche le tracce di vere e proprie “palettate” forse derivate dall’uso di scapole di suino. Di questi strumenti in materia dura d’origine animale non ci è pervenuto alcun esemplare, a parte l’estremità di un corno di capra datato col radiocarbonio a circa 5.500 anni fa. Sembra che i minatori preistorici prediligessero una varietà di goethite fortemente idratata, addirittura plasmabile al solo tocco delle dita di una mano. Il motivo per cui molte impronte di utensili da scavo si sono conservate sino a noi è dovuto proprio a tale estrema plasticità dell’idrossido. La varietà di goethite più dura e compatta veniva invece scartata: spesso se ne trovano accumuli tra i detriti di possenti muretti a secco, eretti allo scopo di non ingombrare gli ambienti sotterranei più angusti. In alcune zone estrattive con potenziali pericoli di crollo, peraltro, sono stati osservati pilastri di goethite non toccati dalle attività di scavo, risparmiati allo scopo di sorreggere la volta ritenuta instabile.
L’estrazione delle risorse cuprifere
Allo sfruttamento degli idrossidi ferrosi si sovrappone, nel corso del IV millennio a.C., una coltivazione diretta con ogni evidenza all’approvvigionamento dei minerali di rame, in primo luogo della malachite. L’interesse verso i minerali di ferro o di rame è riflesso in una variazione dello strumentario da scavo. Ad un’utensileria costituita originariamente da picconi in palco di cervo e da altri utensili in osso o in corno se ne affianca presto una nuova, rappresentata da mazze in pietra provviste di più o meno vistose scanalature sul corpo. In tutti gli ambienti sotterranei caratterizzati dalla presenza di mineralizzazioni cuprifere si registra una marcata dispersione al suolo di tali strumenti scanalati, a riprova della loro stretta relazione col minerale di rame. Fino ad oggi ne sono stati rinvenuti 45 esemplari, la maggior parte integri, pochi altri in stato frammentario. Questi utensili mostrano una marcata variabilità quanto a dimensione, peso e natura litologica. La scanalatura corre generalmente lungo tutto il profilo del corpo litico e può essere a volte associata a delle semplici tacche. Scanalature e tacche rappresentano sistemi funzionali all’immanicatura, che doveva essere realizzata con materiali di origine vegetale.
Il prelievo dei minerali cupriferi avveniva impiegando due distinte tecniche, dette convenzionalmente di “scalfittura” e “sbancamento”. La tecnica di scalfittura rappresentava una soluzione estrattiva immediata, implicando il diretto distacco dei minerali a vista dalle pareti rocciose. Essa è facilmente riconoscibile, soprattutto all’interno dei Cunicoli terminali, per via di chiare raschiature presenti sulle chiazze verdastre di malachite aderenti alla roccia. La tecnica di sbancamento consisteva invece nell’aggressione violenta dei depositi presenti al suolo, allo scopo di recuperare i minerali di rame inglobati al loro interno. Questa tecnica è stata riconosciuta dagli archeologi a seguito di scavi stratigrafici che hanno portato al recupero di stalagmiti, croste stalagmitiche e colate calcitiche fatte letteralmente a pezzi. L’associazione di tali resti con strumenti litici scanalati, integri o frammentari, costituisce la prova inconfutabile che la causa della rottura delle concrezioni deve essere ricondotta ad azioni artificiali imputabili all’uomo. Lo sbancamento dei depositi presenti al suolo permetteva di recuperare minuscoli grumi isolati di malachite e, soprattutto, piccole pietre con accumuli dello stesso minerale sulle superfici. Rispetto alla tecnica di scalfittura, quella di sbancamento rendeva possibile l’acquisizione di una maggiore quantità di minerale cuprifero, permettendo un notevole risparmio di tempo e di energie lavorative nelle dinamiche di approvvigionamento. Non sappiamo a quali usi fossero destinate le risorse minerarie estratte nella cavità né tanto meno dove venissero portate: a tutt’oggi non sono noti luoghi del territorio circostante preposti alla lavorazione e alla trasformazione di questi minerali.
La ripresa delle attività estrattive
In tempi più recenti, precisamente in epoca post-medievale, si assiste ad un rinnovato interesse per la coltivazione degli idrossidi ferrosi, sicché numerose gallerie artificiali vengono scavate con picconi metallici sotto la superficie naturale della Pregrotta e della Sala dei pipistrelli. Lungo le pareti e le volte di tali condotte è possibile osservare migliaia di impronte di scavo lasciate dai picconi utilizzati durante le attività estrattive. I minatori post-medievali hanno inoltre smaltito numerosi detriti costruendo muretti a secco ben strutturati lungo le pareti. Nel 2015, durante i lavori di sistemazione della scalinata di accesso alla grotta, è stato casualmente scoperto l’accesso di un’ulteriore miniera, fino ad allora ignota, proprio sotto il maestoso ingresso naturale della cavità. Essa, ugualmente inquadrabile in età post-medievale, è attualmente in fase di studio e documentazione.
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