Vincenzo Padula ed Enrico Giovanni Pirongelli
La prima segnalazione accertata relativa a Grotta della Monaca compare nei manoscritti del noto letterato calabrese Vincenzo Padula da Acri che, a metà Ottocento, nei suoi appunti su Sant’Agata di Esaro, riporta due note: “Grotte. Molte: ne pigliano il terreno per farne nitro” e, più avanti, “Grotte. Due naturali in due monti opposti: Grotta della Monaca, e nella seconda stanza vi si vede ancora, benché guasta dal tempo, una monaca scolpita; e Grotta del Tesauro, abbondante di terra gialla”. Non sappiamo se il letterato di Acri abbia visitato di persona le due cavità segnalate oppure, com’è più probabile, ne abbia avuto notizia da qualche informatore del luogo. Certo è che il 27 ottobre 1878 le due grotte citate dal Padula furono esplorate da Enrico Giovanni Pirongelli, che dell’impresa lasciò un dettagliato resoconto apparso su “Il Calabrese”, un giornale dell’epoca. La cronaca esplorativa del Pirongelli è uno scritto ricco di preziose informazioni e rappresenta, a tutt’oggi, uno dei più “antichi” documenti storici propriamente speleologici che si posseggano per la Calabria.
L’esplorazione di Enzo dei Medici
Il 16 novembre 1939 Grotta della Monaca fu esplorata da Enzo dei Medici, pioniere della speleologia calabrese. Il dei Medici realizzò un rilevamento topografico speditivo della grotta, con vedute in planimetria e in sezione longitudinale, attribuendole uno sviluppo complessivo di 260 metri. Anch’egli, come il Pirongelli, lasciò un resoconto della sua esplorazione, nel quale si menziona per la prima volta la presenza di curiosi “muretti a secco” nei settori più profondi della cavità. L’esploratore, pur non ascrivendo la costruzione dei muretti ad età preistorica, osservò argutamente “Io penso che i primi che a suo tempo hanno percorso quella galleria abbiano eseguito il lavoro per sgomberare il passaggio e procedere più agevolmente”: un primo inconsapevole riconoscimento della valenza mineraria della grotta, che sarà pienamente compreso solo molti anni più tardi.
La spedizione svizzera
Dovettero passare ben 36 anni perché qualcuno ritornasse ad occuparsi della cavità: e questa volta toccò a speleologi della Società Svizzera di Speleologia che, nel giugno del 1975, la dotarono di un più accurato rilevamento topografico nell’ambito di una campagna di ricerca nel territorio di Sant’Agata di Esaro. E fu proprio durante una delle ripetute visite che gli Svizzeri effettuarono nella grotta che emerse il suo interesse paletnologico. Su un documento tuttora inedito, Serge Piaget – il coordinatore della spedizione speleologica svizzera – segnala il rinvenimento di “frammenti di vasi di terracotta come pure ossa indeterminate ed un dente probabilmente umano”; quindi aggiunge: “sarebbe assolutamente necessario che s’interessasse uno specialista in archeologia, a via di poter determinare con certezza se la Grotta della Monaca fu abitata dall’uomo preistorico”.
Le ricerche del C.R.S. “Enzo dei Medici”
L’auspicio del Piaget si realizzò 22 anni più tardi allorché, nel maggio del 1997, la cavità divenne oggetto di ricognizioni da parte di speleo-archeologi del Centro Regionale di Speleologia “Enzo dei Medici”. I ricercatori, interessati a verificare le suddette segnalazioni, investigarono con attenzione gli ambienti ipogei riscontrando l’esattezza sia delle osservazioni del dei Medici (presenza di muretti a secco) sia delle indicazioni degli speleologi svizzeri (presenza di resti ceramici e ossei dispersi al suolo). In particolare, operando nella parte più profonda del sistema sotterraneo, rinvennero tra i massi di crollo singolari manufatti litici immediatamente riconosciuti come utensili preistorici. Si trattava di asce-martello, mazzuoli e picconi in pietra perfettamente levigata, caratterizzati da una profonda scanalatura sul corpo, certamente predisposta per accogliere un’immanicatura di natura vegetale. Erano, questi, strumenti utilizzati da antichi minatori che avevano sfruttato le ricche risorse minerarie della cavità. Il ritrovamento nello stesso contesto di frammenti di ceramica e di resti ossei umani permise inoltre di riconoscere la presenza, nel medesimo luogo, di un’area sepolcrale risalente ad età preistorica. Considerata l’importanza delle scoperte, e a seguito di preliminari indagini topografiche volte a documentare con estrema precisione la spazialità degli ambienti ipogei, sin dall’anno 2000 sono state organizzate regolari campagne di ricerca e scavo archeologico.
Gli scavi dell’Università di Bari
Dal 2000 al 2012 la cavità è stata infine oggetto di numerose campagne di scavo archeologico condotte dall’Università degli Studi di Bari, avvenute su concessione dell’allora Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Le esplorazioni, effettuate in stretta collaborazione col C.R.S. “Enzo dei Medici per la particolarità del contesto ipogeo, hanno interessato tutti gli ambienti da cui la cavità è costituita (Pregrotta, Sala dei pipistrelli e Cunicoli terminali). L’avvicendamento di numerosi studiosi e studenti, il taglio multidisciplinare dato alle indagini e, al tempo stesso, il coinvolgimento di molte altre università ed enti di ricerca italiani, ha conferito al sito, in breve tempo, una notorietà e un rilievo scientifico non marginali.